Il Cnr sulla nuova via della seta

La nuova via della seta è uno dei più ambiziosi progetti infrastrutturali mai concepiti al mondo. Il suo nome in inglese “Belt and Road Iniziative” (Bri), richiama due grandi direttrici, terrestre e marittima, che estendendosi dall’Asia orientale all’Europa, passando per l’Africa, una volta completate, inaugureranno una nuova era di commercio e di crescita globale. “In questa fase storica, la Cina sta infatti acquisendo hub portuali nel Mediterraneo (Egitto, Grecia, Spagna) e ha grossi interessi anche per i terminal dell’Alto Adriatico (Ravenna, Trieste, Venezia), porti strategici per i corridoi commerciali del centro-nord Europa”, spiega Alessandro Pasuto dell’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica (Irpi) del Consiglio nazionale delle ricerche di Padova e co-responsabile scientifico del Sino-Italian laboratory on geological and hydrological hazards, uno dei laboratori congiunti nati dalla collaborazione tra il Cnr e la Chinese Academy of Sciences.

Un occhio ai numeri, e appare subito evidente che la Cina sta realizzando un’impresa colossale, mettendo in collegamento 4,4 miliardi di persone, pari al 63% della popolazione mondiale, in oltre sessanta Paesi. È un’occasione significativa che la nuova via della seta offre al mondo scientifico, impegnato nello studio e nella prevenzione di rischi naturali legati al territorio. “Queste nuove direttrici intermodali toccano territori caratterizzati da significativi rischi geologici derivanti soprattutto da fenomeni franosi e terremoti. Si tratta di aree molto vaste che comprendono le catene dell’Himalaya e del Karakorum, tra le aree più attive del Pianeta”, precisa il ricercatore del Cnr-Irpi. Per avere un’idea, pensiamo ai devastanti terremoti che hanno colpito il Nepal nel 2015, provocando ingenti danni nella capitale Katmandu ed enormi problemi alla viabilità dovuti alle grandi frane sismoindotte, e prima ancora nel 2008 al terremoto di Wenchuan (provincia del Sichuan) in Cina che ha visto decine di migliaia di vittime e una devastazione estesa per centinaia di chilometri. “Sono zone tettonicamente molto attive che si caratterizzano per l’altezza dei rilievi e le rilevanti pendenze, dove la gravità unita agli agenti esterni determina fenomeni franosi di grandi proporzioni”, continua Pasuto.

Di fronte all’urgenza e alla necessità di procedere in sicurezza nel progetto, la Cina ha costituito un importante gruppo di ricerca con il compito di analizzare e classificare i livelli di rischio legati a processi naturali (terremoti, inondazioni, siccità, precipitazioni, colate detritiche) lungo i corridoi che dovrebbero essere interessati dalle infrastrutture commerciali. Circa quaranta esperti provenienti da diverse realtà di ricerca di numerosi Paesi, prevalentemente asiatici, lavorano al “Silk road disaster risk reduction”, un progetto finanziato dalla Cinese Academy of Science e che entro il 2025 dovrà completare rilievi e monitoraggi, definendo le aree maggiormente suscettibili al dissesto e fornire soluzioni sostenibili per la mitigazione del rischio. “Consapevoli delle difficoltà che progetti di questo tipo implicano anche a livello scientifico, i colleghi cinesi hanno cercato la nostra collaborazione, certi che questo avrebbe portato un valore aggiunto alla loro attività e, a questo scopo, sono usciti dal loro isolazionismo culturale, mettendo in campo ingenti risorse finanziarie e di personale”, evidenzia l’esperto. “A Padova, stiamo lavorando in due ambiti diversi. Il primo a scala molto piccola, con l’analisi della suscettibilità al dissesto dell’Asia centro-meridionale, dove dovrebbe concentrarsi una parte rilevante delle infrastrutture di progetto. Questa analisi ha riguardato quattordici Paesi, per un’area di circa 24 milioni di km<sup>2</sup>, con una rete infrastrutturale principale già esistente di più di 7.3 milioni di km e prendendo in considerazione un dataset di più di 250.000 fenomeni franosi. Il secondo, a scala maggiore, lungo la cosiddetta Cpec (China-Pakistan Economic Corridor) che collega la città di Kashgar in Cina al porto di Gwadar in Pakistan, attraverso il passo del Khunjerab che con i suoi 4.693 m è il più alto transito asfaltato del mondo. In questo contesto la circolazione è spesso problematica  e rischiosa a causa delle numerose frane che interessano la zona, ragion per cui stiamo studiando soluzioni di protezione con barriere flessibili per le colate detritiche e procedure di messa in sicurezza della popolazione in caso di allarme, una collaborazione che nasce dall’esperienza dell’Istituto in materia di protezione idrogeologica e ci consente di osservare uno dei tanti anelli di quest’impresa ciclopica da un punto di vista  avulso da considerazioni geopolitiche”.

Un anello senza fine, visto che l’area su cui in questi mesi si concentrano gli sforzi di analisi e di studio dei ricercatori del Cnr-Irpi è una delle meno popolate della terra: l’Asia, centrale. “La cultura in Oriente è completamente diversa dalla europea, tuttavia ugualmente antica e ricca di valori”, commenta Pasuto. “In questo immenso progetto della nuova via della seta c’è tanta voglia di affermare una nuova leadership, che sta assumendo volti nuovi nello scacchiere geopolitico internazionale: la Cina vuole ribadire il proprio ruolo centrale nell’area in cui è – e non solo – costruendone i pezzi con proprio personale e con fondi propri”.

Il personale che lavora alle nuove direttrici commerciali, sia marittime sia terrestri, in Asia come in Africa e in Europa, è infatti solo cinese, così come solo cinesi sono i principali finanziatori, un gruppo di 6-7 banche che sostengono il progetto per un valore stimato in circa 25 trilioni di dollari.  “Se ci pensiamo bene il sistema su cui si basa il progetto della nuova via della seta ricalca, amplificato nel fattore di scala, l’approccio nazionalistico e familiare delle piccole attività cinesi che hanno attecchito in Occidente e che oramai tutti conosciamo. La ricerca in tutto questo entra in funzione del dato scientifico, spesso limitato allo spazio su cui è chiamata a dare risposta, essendo le informazioni verificate e gestite a livello centrale”, conclude il ricercatore.

Maria Teresa Orlando Fonte: Alessandro Pasuto, Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica , email alessandro.pasuto@irpi.cnr.it